Koné si racconta: “Non sono solo un centrocampista difensivo. Ho una buona tecnica, devo migliorare il tiro in porta”
Manu Koné, convocato dalla Francia per le gare di qualificazione ai prossimi Mondiali contro Ucraina e Azerbaigian, ha rilasciato un'intervista ai canali ufficiali della federazione francese.
Sul suo percorso calcistico.
“Non sono mai stato al centro della scena, sempre sullo sfondo, anche nei tornei. Nella mia squadra ero “il piccolo”, quello di cui si dice «Ah, hanno Manu Koné». L’ho capito presto: dovevo dimostrare, dovevo farlo con i fatti. Hanno iniziato a parlare di me tardi, davvero tardi. Nella scuola calcio ero sempre un po’ indietro, sempre il più piccolo, anche per via della mia timidezza. Ora va meglio, ma a causa di quella timidezza, anche se ero bravo, non mi notavano molto. Ero sempre nascosto. Dovevo dimostrare per sentirmi dire «Ah, c’è anche questo piccolino». E fino a oggi è ancora così. Conosco il mio percorso: so che devo sempre lavorare, che non sono uno sotto i riflettori, ma è il mio cammino”.
Che tipo di giocatore sei?
“Mi piace correre, mi piace spendermi per la squadra, difendere. Ma la gente spesso non vede che, oltre a essere un giocatore difensivo, ho anche una buona parte offensiva. Non voglio dilungarmi, ma credo di avere una buona tecnica sotto pressione. So portare palla in avanti, solo che non concludo sempre bene le azioni, ma questo arriverà col tempo. Ci lavorerò. Non voglio dire di essere un giocatore completo, ma penso di saper fare un po’ di tutto. Devo solo perfezionare ogni aspetto. Mi vedono un po’ troppo come un giocatore difensivo, ma da bambino dribblavo molto: non giocavo ancora a centrocampo, e credo che quella varietà di qualità oggi mi aiuti”.
Sulla nazionale.
“Quando arrivo in nazionale, faccio ciò che l’allenatore mi chiede. In campo bisogna fare il proprio lavoro: tutti devono avere la stessa idea e la stessa visione per raggiungere l’obiettivo comune. Io sto bene, tranquillo. Mi sono adattato: ormai è un anno che sono qui. Parlo con tutti, scherziamo, ridiamo. Entrare a Clairefontaine era un sogno da bambino. È un grande orgoglio, perché da piccolo sognavo di arrivare qui. Avevo già frequentato Clairefontaine da bambino. Oggi quel sogno è realtà. Spero di dare il meglio di me per restarci il più a lungo possibile. So che posso sembrare un po’ freddo - me lo dicono spesso - ma chi mi conosce sa che sono sorridente, mi piace scherzare, far ridere la gente. Sono uno che ama vivere bene: con me non ti annoi”.
Sulle sue origini.
“Vengo da Villeneuve-la-Garenne, ma sono nato a Colombes. Mi sento di Villeneuve-la-Garenne: lì ho fatto la scuola, lì ho gli amici, ho vissuto anche le difficoltà. Per me è la mia migliore infanzia: anche se non era tutto perfetto, è proprio questo che la rendeva perfetta. Ho ancora famiglia lì - cugini, amici - tutti ancora là. E poi c’è il mio torneo: la MK Cup. È un torneo che ho sempre voluto fare da bambino, perché quando ero piccolo, William Gallas aveva organizzato un torneo nella mia città. Quando l’ho visto, mi sono detto: «Quando sarò grande, se divento un calciatore professionista, voglio farlo anch’io». E oggi, ogni anno, è un modo per mantenere quel legame”.
Sulla sua carriera.
“Ho iniziato al Paris FC, poi sono andato a Tolosa per 5/6 anni, credo. Poi sono andato al Borussia Mönchengladbach, vivevo a Düsseldorf, e dopo sono arrivato alla Roma. Culture diverse, modi di vivere diversi. A Roma, essendo la capitale, cambia tutto anche il cibo. Italia, Francia, Germania: tre mondi differenti. Il tedesco è molto difficile, davvero molto. Riuscivo a capire un po’, ma ora che sono da un anno a Roma capisco quasi tutto e a volte parlo anche un po’. Anche il calcio è diverso: in Germania è più aperto rispetto alla Francia, mentre in Italia è più tattico, più chiuso. Questo ti obbliga ad adattarti, a pensare diversamente”.
Sul suo motto “En mission”.
“Il motto “en mission” è nato con un amico durante un allenamento. Un giorno parlavamo, e ci è venuto in mente quel termine: “en mission”. Era uno slogan che rappresentava bene il nostro percorso, e anche quello dei nostri genitori. Perché loro sono sempre in missione per noi: fanno sacrifici, si danno da fare. E noi, sul campo, siamo in missione per loro. Ora lo uso come motivazione: in tutto ciò che faccio, mi dico “sono in missione”. Sono qui per dare tutto, non per niente. Finché faccio il calciatore, sono in missione. Non scherzo su questo”.
Sulla sua passione per il calcio.
“Per me il calcio è una passione. Puoi chiedere alla mia famiglia: da piccolo facevo pazzie. Uscivo di casa a mezzogiorno e rientravo alle nove di sera, solo perché ero andato a giocare a calcio. È una passione, l’ho sempre amato. Anche a scuola giocavo solo a calcio. Ed è questa passione che nutre il calcio: se la perdi, perdi anche te stesso”.
Sulle Olimpiadi di Parigi.
“Sono stato felice di partecipare alle Olimpiadi in Francia. È stata una bellissima competizione, soprattutto perché giocavamo in casa, a Parigi. Essendo parigino, è stato incredibile. Non pensavo che sarebbe stato così straordinario: dal primo match abbiamo sentito l’entusiasmo dei tifosi. Eravamo carichi. Arrivare fino in finale è stato perfetto. Certo, abbiamo perso, ma la medaglia d’argento resta una bella cosa, fa parte della storia. E poi con compagni come Jean-Philippe Mateta, che non conoscevo prima, abbiamo creato legami. Ma anche con Olise, Doué, Akliouche, Badé che ci rivediamo in nazionale maggiore. Ma anche per il nostro allenatore, Thierry Henry. Credo che sia una grande soddisfazione per lui vedere i suoi ragazzi arrivare in nazionale A e continuare a fare bene”.
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