Alberto Orlando: "Io per la Roma sto male, per me è tutto"

13.11.2020 11:48 di  Marco Rossi Mercanti  Twitter:    vedi letture
Alberto Orlando: "Io per la Roma sto male, per me è tutto"
Vocegiallorossa.it
© foto di Antonello Sammarco/Image Sport

Il 13 novembre 1960, esattamente 60 anni fa, la Roma vinceva il derby "esterno" contro la Lazio con un rotondo 4-0. Mattatore del match Pedro "Piedone" Manfredini, autore di una tripletta, con il sigillo finalle siglato da Alberto Orlando. A tal proposito, quest'ultimo è stato intervistato dal sito ufficiale del club giallorosso:

Cosa ha rappresentato la Roma per lei?
"Sono un figlio della Roma. La Roma mi ha insegnato ogni cosa. Ma penso di essere stato fortunato, sono cresciuto in un vivaio di romani: De Sisti, Leonardi, Menichelli, Scaratti. Tutta gente arrivata in Serie A. Eravamo uniti. Ci sentivamo forti. La romanità è un valore incredibile: noi sapevamo cosa significasse vincere il Derby".

E cos'è il Derby?
"Il Derby è la vita".

Che giocatore è stato Alberto Orlando?
"Un uomo che per la Roma si è adattato a ricoprire un ruolo non suo. Io ero un centravanti, ma l'arrivo di Manfredini e il declino di Ghiggia mi costrinsero a spostarmi all'ala destra. Ho obbedito ai miei allenatori. E la dimostrazione che io fossi una prima punta sono stati i 17 gol in 32 partite segnati con la Fiorentina guidata da Chiappella. Quella stagione (1964-65, la prima dopo l'addio alla Roma, ndr) vinsi il titolo di capocannoniere in coabitazione con Sandro Mazzola. Chi non ha giocato a pallone non si rende conto dei problemi che può incontrare un calciatore quando si trova in una zona del campo alla quale non è abituato".

Anche perché era un calcio diverso da quello attuale.
"Certo. Oggi si parla di prima punta, mezzapunta, trequartista: giocano a dieci metri di distanza uno dall'altro. A quei tempi non era così. La distanza tra le due ali e il centravanti era di trenta metri. Però la Roma mi ha cambiato l'esistenza: io venivo da una famiglia povera. E nella Roma prendevo mille volte quello che guadagnava mio padre. Anche se per i giornali dell'epoca ero sempre tra parentesi".

Tra parentesi?
"Nelle formazioni che si facevano nel precampionato non figuravo mai tra i titolari. Mai. E invece nei miei anni romanisti lo sono sempre stato. Non sono stato mai una riserva. Io lottavo per quella maglia. Mi allenavo da solo prima ancora che iniziasse il ritiro estivo. Ecco, questo era Alberto Orlando". 

Il romano Orlando di quale quartiere è?
"Sono nato a Tor Pignattara. Vivo a Ferrara perché ho sposato una ferrarese, che mi ha dato due figli meravigliosi. Ora mi godo i miei tre nipoti".

Sanno chi è stato il nonno? 
"Lo hanno scoperto con gli anni. Uno di loro si chiama come me: Alberto Orlando. Ha 12 anni e gioca nella SPAL".

In quale ruolo?
"Alberto è un'ala destra. Ma non riesco ad andarlo a vedere giocare, sentirei troppo le partite e rischierei di starci male. Nel calcio giovanile di oggi, comunque, c'è troppa esasperazione tattica".

A proposito di tattica, non ha mai pensato di allenare, una volta conclusa la carriera di calciatore?
"Non mi è mai piaciuto. Dopo qualche anno che avevo smesso di giocare si è fatta strada la figura del direttore sportivo. Era un ruolo che sentivo più mio. Ormai, però, ero da troppi anni fuori dal giro".

Qual è stato il compagno di squadra più forte che ha avuto?
"Sono due: Lojacono e Da Costa. Ma ho avuto l'onore di giocare con tanti mostri sacri".

E l'avversario peggiore che ha dovuto affrontare?
"Facchetti. Perché era un terzino d'attacco. Ero io che dovevo correre dietro a lui, mica il contrario. E poi Franco Janich, il centromediano della Lazio. Ogni Derby era una battaglia, ma una battaglia leale. Era una persona meravigliosa. È stato l'avversario che ho stimato di più nella mia carriera. Siamo rimasti amici, ci siamo incontrati in più di un'occasione. L'ultima volta a casa sua, a Nemi. La sua morte (il 2 dicembre 2019, ndr) mi ha addolorato tanto".

Un altro dolore deve averlo provato lasciando la Roma.
"Fui venduto alla Fiorentina e nel primo Fiorentina-Roma sarebbe stato meglio che fossi rimasto a casa. Era troppo forte l'emozione per la divisa che avevo indossato per molti anni. Non mi vedevo con un'altra maglia. Il primo tempo non toccai palla".

Da questa intervista emerge il suo grandissimo tifo per la Roma. 
"No, io non tifo per la Roma: io sto male per la Roma. La Roma è tutto".