Vagner: "Non scattò il feeling con Zeman. Avrei potuto giocarmi le mie carte"
Rogerio Vagner, ex centrocampista giallorosso che collezionò 16 presenze nella stagione 1997-'98, è il protagonista dell'AS Roma Match Program della gara contro l'Hellas Verona.
Decise di tornare in Brasile dopo nemmeno un anno.
“Sì, esatto. Mi mancò la pazienza di aspettare la mia possibilità, il mio momento. Zeman me ne concesse alcune all’inizio, ma poi subentrarono alcuni problemi tattici e di ambientamento ad un altro tipo di calcio. Ero al primo anno in Italia, in fondo. Dico spesso che avrei dovuto seguire l’esempio di Platini, che non andò bene i primi sei mesi a Torino, ma poi diventò in bianconero il fenomeno che conosciamo tutti”.
Però iniziò alla grande. Al debutto assoluto in Coppa Italia contro il Verona, fece applaudire l’Olimpico intero.
“Un grande esordio. Fu una partita che vincemmo e in cui giocai molto bene. Non lo dico io, ricordo ancora oggi i giudizi dei giornali il giorno dopo. Mi trovai a mio agio, come pure qualche tempo dopo con l’Atalanta, sempre in casa, che finì 3-0 per noi”.
E cosa non funzionò, allora?
“Non scattò il feeling con Zeman. Non tanto umanamente, quanto su quello che mi richiedeva in campo. Lui voleva un centrocampista che corresse avanti e indietro per tutta la partita, che andasse sempre in verticale e portasse poco il pallone. Io non mi sono mai rifiutato di fare il suo calcio, però avevo altre caratteristiche. Mi piaceva trattare la palla, giocarla anche orizzontalmente per i compagni in alcuni momenti, cercare di dettare l’ultimo passaggio. Dal punto di vista della tecnica, mi si poteva insegnare poco”.
Non bastava solo la qualità, evidentemente.
“Già, è così. Ricordo Tommasi e Di Francesco, i due che giocavano nel ruolo di mezzali nel centrocampo a tre, non avevano una proprietà di palleggio eccelsa, ma erano faticatori instancabili. Non si fermavano mai. Non caso, poi, diventarono calciatori della nazionale italiana e anche campioni d’Italia con la Roma quattro anni dopo. Due uomini perbene, in ogni caso”.
Ha menzionato lo scudetto della Roma. Ritiene che se avesse avuto pazienza – come sostiene – avrebbe potuto far parte di quella rosa del 2001 allenata da Capello?
“Io penso che avrei potuto provare a giocarmi le mie carte, magari cercando di adattarmi meglio. Ma sempre restando dopo la stagione 1997-1998. Questo sicuramente. Però poi andai in prestito al Vasco de Gama, in un periodo vincente per questa squadra e feci la mia parte. Quando arrivò Capello alla Roma, nel 1999, ero sempre di proprietà del club, ma qualcuno parlò male del sottoscritto al nuovo allenatore e io non ebbi la chance di giocarmi un’altra possibilità a Roma. Così, fui venduto a titolo definitivo in Spagna, al Celta Vigo. Peccato”.
Un ricordo, un’emozione di quel periodo?
“L’amore incondizionato della gente. Un affetto unico, bellissimo, trascinante. Pensi che poco tempo fa sono venuti a Roma dei miei amici. Hanno preso un taxi, parlando con il tassista è uscito che loro erano miei conoscenti e per questo lui ha offerto la corsa. “Se siete amici di Vagner, siete anche miei amici”, gli ha detto. E non gli ha fatto pagare nulla. Altrove tutto questo amore per una squadra è difficile trovarlo. Giusto in Brasile è forte e intenso allo stesso modo”.
Calcisticamente, invece?
“Giocare in Serie A è stato un sogno che sono riuscito a realizzare. Quando mi prese la Roma ero davvero un uomo felice. Felice di venire a giocare il calcio migliore al mondo. Insieme a giocatori di primissimo livello. Ne cito uno, ed è anche facile: Francesco Totti. Raramente ho visto uno calciare come faceva lui. Nemmeno tra i brasiliani. Si vedeva che sarebbe diventato un leader e fuoriclasse per la Roma”.
In città ricorre una leggenda su di lei. È vero che amava mangiare la pasta con le banane?
“Aahahhaahahha. Mi chiamavano Vagner Banana… Comunque, sì, è vero. La cosa era molto semplice. Io ero abituato a mangiare riso e fagioli, la feijoada, un piatto tipico brasiliano. Mi piace molto. In Italia non si fa altro che mangiare pasta, pasta, pasta tutti i giorni. Buona, eh, per carità. Ma sempre quella… Così, per variare, ad un certo punto, mettevo dei pezzi di banana nel piatto. Inizialmente i compagni mi prendevano in giro, poi una volta l’hanno assaggiata e hanno cambiato idea. Non era male per niente…”.
Oggi di cosa si occupa?
“Dopo i guadagni ottenuti con il pallone, ho potuto fare le cose in tranquillità, stando anche solo la mia famiglia in alcuni momenti. Però ho insegnato calcio ai più piccoli e ora mi piacerebbe lavorare da dirigente. Per questo ho ripreso a studiare per completare la mia formazione. Attualmente, inoltre, per avere più conoscenze personali, seguo anche un corso di teologia”.