De Sanctis: "Mi piace molto il percorso da team manager. Quando Monchi mi chiamò, pensavo mi proponesse di giocare..."
Il team manager della Roma Morgan De Sanctis ha rilasciato un'intervista all'AS Roma Match Program.
Come nasce l’idea di diventare team manager?
“In realtà non è stata proprio una mia idea, io giocavo a Montecarlo, peraltro un’esperienza bellissima, che si è conclusa con la vittoria del campionato, la semifinale di Champions… non ero protagonista ma davo una mano ai giovani e i programmi erano stati rispettati. Avevo un anno di contratto ancora, non pensavo di smettere quando ho ricevuto la chiamata di Monchi, mio ex direttore al Siviglia. In questi anni abbiamo conservato un buon rapporto, lo chiamavo dopo i suoi successi, e lui mi chiedeva consigli su calciatori che conoscevo. Il direttore è stato convincente e mi ha fatto capire che poteva essere un’opportunità di partenza fuori dal campo. Il presidente Pallotta, il direttore Baldissoni, tutta la Roma insomma, vedevano in me una figura che poteva essere utile e io non ho avuto difficoltà nel scegliere questa avventura. Si trattava di capire che avevo ricevuto e dato tanto al calcio, non potevo andare avanti all’infinito. Inoltre la proposta del DS è arrivata in un particolare momento personale. Volevo cogliere l’opportunità di riportare la mia famiglia a Roma, dove abbiamo deciso di vivere per sempre. Associare poi la possibilità di lavorare in una società prestigiosa come la Roma ha fatto sì che accettassi”.
Come si sente a dover vivere la partita sapendo di non poter entrare in campo?
“Una differenza sostanziale è se la scelta di smettere ti viene imposta o lo decidi. La mia è stata una scelta ed è scattata un’assunzione di responsabilità, non ho mai cercato capri espiatori. Né ho mai pensato che mi fosse stato tolto qualcosa. Insomma non provo alcun rancore rispetto alla possibilità di non giocare più. Gioisco delle vittorie dei ragazzi, adoro il calcio, è stato un privilegio essere professionista, nel calcio vedo il mio futuro, ma ora devo lavorare, studiare per rimanerci in maniera efficace. Questo percorso mi piace molto, poi farlo nella Roma è un privilegio da riconoscere ed apprezzare, per dare tutto te stesso”.
Il suo compito è fare da tramite tra società e squadra, ce lo spiega nei dettagli?
“In realtà già da giocatore sono stato sempre un punto di riferimento nello spogliatoio, se vogliamo un sindacalista, mi sono sempre preso le responsabilità e ho ragionato a livello collettivo. Probabilmente nella scelta del presidente, del DG e del DS è valsa anche la conoscenza di come io interpretavo il ruolo. Oggi che non sono più un calciatore, il mio compito è essere una figura cuscinetto, con Gianluca Gombar, mio collaboratore di fiducia. Allenatore e calciatori passano attraverso me per micro-temi che devono affrontare con il club e viceversa. Ovviamente quando si tratta di temi più importanti subentrano i nostri dirigenti di primo livello. È un lavoro stimolante e faticoso, per cui devo conoscere tutte le aree del club, dall’amministrazione alla biglietteria. Quando sei calciatore non ti rendi conto realmente di tutto il lavoro che gira intorno alla squadra, quando chiudi con il calcio giocato capisci che il privilegio di concentrarsi solo su se stessi finisce. Inizia la vita delle persone che si svegliano e hanno delle responsabilità. È un passaggio. Io cerco di far capire ai calciatori che devono comportarsi tenendo conto che attorno a loro ci sono persone che fanno di tutto per agevolarli. Poi è evidente che in un club di calcio quello che deve funzionare di più sono calciatori e allenatore”.
C’è un aneddoto che può raccontarci di questi primi mesi?
“Ricordo con piacere quando mi ha chiamato Monchi. Pensavo che mi proponesse un contratto da calciatore. Immaginavo che dopo la partenza di Szczesny, Alisson sarebbe diventato il titolare e lui cercasse qualcuno per fare il secondo. Sono persino arrivato all’incontro con questa convinzione! Lui in spagnolo mi ha chiesto ma sei pronto per cosa?! Con i suoi tempi di comunicazione è stato abilissimo a farmi lasciare il calcio in un momento. Con quella battuta e poi una spiegazione più chiara mi ha fatto capire che sarebbe stato il momento giusto per cambiare. Gli altri discorsi con Pallotta e Baldissoni poi hanno accelerato tutto”.
Come nasce il suo rapporto con Monchi?
“C’è una profonda stima che nasce dieci anni fa, quando ho giocato al Siviglia. Lì si è creato un rapporto di fiducia reciproca. Quando sono arrivato in Spagna ero in una situazione particolare, avevo lasciato l’Udinese esercitando la possibilità di rescindere il contratto. Il Siviglia era la squadra più importante che in quel momento mi aveva fatto un’offerta. Io sono arrivato da secondo, loro volevano due titolari per ogni ruolo, quella era infatti una rosa fantastica e davanti a me c’era Palop. Palop si fece male ed io ebbi l’opportunità di giocare. Dopo appena due giorni dal rientro Palop fu rilanciato dall’allenatore subito titolare. Avrei potuto fare casino, mettere pressione. Ma io per carattere, penso che vada sempre messo il bene della squadra davanti, così decisi di accompagnare Palop fino alla fine. Il mio atteggiamento fu apprezzato, ma poi a fine stagione lasciai. Con Monchi ci legano sentimenti e ideali. Lui ha un gran rispetto del lavoro delle altre persone. Sono i valori di una volta che si fa fatica a ritrovare. Per me è ancora un privilegio potergli essere a fianco”.
Nel frattempo ha fatto il corso da allenatore, come mai?
“Quando finisci di giocare a calcio e hai fatto come me il calciatore al 100% fino all’ultima parata hai visto calciatori disperdere energie verso la fine della loro carriera cercando di pensare al futuro. Io non ho fatto così, mi sono concentrato sulla mia carriera fino alla fine. Quando riparti devi riempire una scatola quasi vuota, devi studiare, fare altre esperienze. Inizi a confrontarti con la possibilità di studiare da allenatore, da DS… fare un’esperienza da team manager. L’esperienza per me è più importante dello studio. Ma la scatola va riempita, altrimenti passi di moda. Pochissime scatole restano lucide, ma vanno riempite comunque. Servono i contenuti”.
Come è il rapporto con Di Francesco?
“Eusebio è di un paese a 20 km da casa mia. È un rappresentante splendido dei sentimenti che la nostra terra si erge a veicolare. C’è feeling e rispetto dei ruoli. Questo ovviamente è di grande aiuto. Se hai interlocutori che neanche al 5% la pensano come te diventa difficile. Invece noi ci stimiamo, abbiamo rapporti snelli ed efficaci”.
Ha affrontato diverse volte il Barcellona, che ricordi ha di quelle esperienze?
“Ho affrontato sette volte il Barcellona, due volte nel Gamper, non è andata bene. Nelle cinque partite ufficiali però non è andata malissimo. Due volte in Coppa del Re con il Siviglia, 0-0 e 1-1, poi il pareggio in casa con la Roma con il gol di Florenzi, fu strano, un minuto prima scherzavo in panchina, poi si fece male Szczesny ed io entrai in corsa. Mi manca la vittoria, chissà che non possa coglierla da team manager, sarebbe davvero una bella soddisfazione”.
Senza entrare nella sfera di competenza dell’allenatore, la Roma come affronterà il Barcellona?
“Il rispetto ci sarà sicuramente, non puoi non rispettare un avversario come il Barcellona. Noi siamo la Roma e anche loro ci rispetteranno, nella consapevolezza di essere più forti. Credo serva un mix tra paura e coraggio. Possono creare entrambi quella scintilla per far sì che venderemo cara la pelle. Quindi ti rispondo da un punto di vista emotivo, sotto gli altri punti di vista risponde chi fa bene questo lavoro alla Roma”.
È un vantaggio giocare la prima fuori casa?
“Mi sentirei di dire che è un vantaggio, ma a questo punti gli equilibri iniziano ad essere livellati, ci si rifà ad episodi che ci saranno a Roma come a Barcellona. Vediamo… anche noi siamo curiosi di capire come le squadre si affronteranno”.
Da ex portiere si aspettava questa stagione da Alisson?
“Già lo scorso anno si intravedevano qualità importantissime. A me poi è bastato vederlo in allenamento una volta per valutarlo. L’unico dubbio che rimaneva era capire quanto potesse mantenere un livello così alto in un’intera stagione, visto che non era un portiere con una grande storia di partite alle spalle nel campionato italiano nonostante avesse già 20 partite con la nazionale brasiliana. Il rendimento, la qualità del rendimento, è stato sbalorditivo. Questa continuità di rendimento è stata una sorpresa, poi vedendolo tutti i giorni, vedendo come ragiona, allora lo capisci. Io ho un debole per l’atleta generoso e serio. È bello confrontarsi con questo tipo di atleti”.
Che idea si è fatto di Savorani?
“Marco lo conosco da tanto tempo, ho giocato con lui al Pescara. Da calciatore era già allenatore, potevi scommettere che avrebbe preso quella strada… aveva la cura del corpo, dell’aspetto tattico. In campo non ha fatto una grandissima carriera commisurata al suo talento, perché capita di dover fare delle scelte, in alcuni momenti non è stato fortissimo psicologicamente, non ha trovato le persone giuste, la fiducia giusta.
Da calciatore ha ricevuto meno di quello che meritasse.
"Da allenatore i suoi portieri hanno sempre avuto grandissimi livelli di rendimento. Ora che lo vedo lavorare da tecnico ti dico che niente è figlio del caso. Lui corregge, studia nei video e migliora i portieri sul campo”.
Prima di salutarci, la Roma entra in una fase cruciale della stagione… come va affrontata?
“Sette partite in venti giorni, quando sei in un club come la Roma sei costantemente sotto pressione, speriamo che non sia l’ultima volta che giochiamo così tante partite ravvicinate. Sono cicli determinanti, quando si gioca ogni tre giorni tutte le componenti devono fare in modo che ai calciatori sia dato il massimo sostegno possibile. Lasciarli più tranquilli possibili e creare le condizioni migliori per recuperare e concentrarsi sul campo. Vale lo stesso per loro, devono capire che riposare un minuto in più, lavorare un minuto in più, usciere un minuto in meno e mangiare un pasticcino in meno aiutano a non avere dei rammarichi”.