Monchi: "Un mio obiettivo è quello di esaudire il sogno di qualsiasi romanista, che è vincere un titolo". VIDEO!
Il DS giallorosso Monchi ha parlato delle varie tappe della sua vita ai microfoni del giornalista Berto Gallego. Ecco le sue parole prese direttamente dal video, apparso su Youtube, dell'intervista.
Monchi, com’è iniziato tutto?
«In ogni ricordo della mia infanzia c’è un pallone. Una strada, un campo ricavato in qualsiasi posto e amici giocando a calcio. Era solo un divertimento. Poi la scuola calcio e la prima squadra che mi ha tesserato. Ho iniziato a giocare in una squadra chiamata Aguila. Dopo un anno passai al San Fernando, la squadra della mia città. Un anno e mezzo dopo mi chiamò il Siviglia.Due stagioni nelle giovanili, nove in prima squadra, una da team manager e poi diciassette-diciotto da direttore sportivo ed eccomi a Roma. L’altro giorno ho letto un’intervista a Mertens in cui diceva che lui da bambino non aveva un idolo, voleva solo giocare a pallone: mi sono visto rappresentato in queste dichiarazioni, non c’era un portiere che fosse il mio idolo,uno che mi levasse il sonno… Volevo solo giocare».
Però hai detto che Rinat Dasayev è stato il miglior portiere della storia…
«Sì. Tecnicamente perfetto. Capacità di bloccare, slancio… Praticamente non andava mai per terra perché aveva un senso della collocazione e dei piedi strabilianti. Oggi il gioco coi piedi è molto richiesto nei portieri, ma all’epoca era qualcosa di unico».
In quel Siviglia hai giocato con calciatori del calibro di Zamorano e Davor Suker, che ricordi hai di loro?
«Nel Siviglia dei miei inizi c’erano ottimi giocatori, soprattutto in attacco. Prima Toni Polster, che per me è stato uno dei migliori attaccanti della storia del Siviglia, poi Ivan e Davor, ma anche Simeone, con cui ho giocato due anni. Per me era un sogno fatto realtà condividere lo spogliatoio con calciatori di tale livello. Ho anche avuto la sorte di avere grandissimi allenatori: Cantatore, Esparrago, Bilardo e il compianto e grande Luis Aragones… È stata una tappa della mia vita che dal punto di vista sportivo è rimasta un po’ nascosta, ma che mi ha fatto vivere esperienze uniche e splendide».
Il Siviglia ha sempre avuto grandi attaccanti…
«Luis Fabiano, Kanoute, Negredo, Bacca, Gameiro… Sarebbe difficile metterli in ordine…C’è anche Toni Polster che in area era una bestia, veramente incredibile».
Come fu la stagione con Bilardo?
«Innanzitutto rappresentò l’opportunità di giocare un anno con Maradona e di conoscerlo come persona. Viaggiammo molto per il mondo giocando amichevoli, era strano per una squadra che non era abituata a viaggiare. E poi la fortuna di essere allenato da Bilardo, che mi ha segnato molto non solo nel calcio ma proprio nella vita. Ciò che oggi sono e ciò che faccio l’ho appreso da lui: l’importanza data ai piccoli dettagli. Ci sono spesso cose che riteniamo secondarie, spesso lasciate al lato, che invece se curate e valorizzate diventano importanti. Su questo sono un po’ ossessivo. Carlos è uno che non lasciava nulla all’improvvisazione: io cerco di essere così».
E Diego…
«Diego era un buono. Buono soprattuto con le persone vicine a lui. La prima volta che l’ho visto pensai “Chissà se mi saluterà, chissà se mi parlerà”. Io ero stato uno degli ultimi ad arrivare nello spogliatoio del Siviglia, ero secondo portiere e con lui nacque un rapporto magnifico. Scoprii che era una bellissima personae che la sua personalità non risentiva della sua enorme figura».
Prima Napoli, poi Siviglia… Forse cercava un po’ della sua Buenos Aires dopo l’esperienza non così buona a Barcellona…
«Sì, può essere. La sua forma di essere è certamente più vicina a Napoli e a Siviglia che a Barcellona. È caldo, sentimentale e aveva sempre bisogno della vicinanza dei tifosi».
Questo genere di aspetti si considera quando si compra un giocatore?
«Quando si compra un giocatore si considera tutto. Ci sono calciatori che trionfano in alcune circostanze e in altre non rendono, ad esempio fuori dal proprio paese. Non dobbiamo scordarci che il giocatore è una persona e se alcune necessità vengono meno può rendere meno».
Cosa hai appreso da Luis Aragones?
«Ho sempre detto che a livello tattico è stato il mio miglior allenatore. Quello che mi ha insegnato di più e quello che capiva meglio come giocava la squadra. Bilardo è stato il mio maestro a livello umano, a livello tattico il maestro è stato sicuramente Luis».
Quando ancora giocavi al Siviglia ci fu una generazione di talenti del vivaio molto buona, con Jose Mari, Marchena, Luque, che rimase svantaggiata dalla cattiva situazione della squadra, è così?
«Sì, è una generazione arrivata in un periodo sfortunato.La retrocessione e i problemi economici fecero sì che questi giocatori, che avevano vinto la massima competizione giovanile nazionale,non potessero esprimersi al meglio. Storicamente la cantera del Siviglia ha sempre fornito giocatori di ottimo livello».
Ho l’impressione che durante l’ultima promozione che hai vissuto, quando poi ti sei ritirato, ha avuto una grande importanza “El profe” Ortega, che ora fa il preparatore con Simeone a l l’Atletico…
«Personalmente mi ha cambiato la mentalità. Ha introdotto professionalità nell’alimentazione, nella cura e nel peso che non avevo mai visto. Io “casualmente” persi otto chili nei sei mesi in cui ci fu lui. Quando mi ritirai ero in formissima: lo avevo già deciso e avevo problemi alla spalla, ma fisicamente ero a un livello altissimo».
Il DS poi ha continuato a parlare della sua carriera nella seconda parte dell'intervista
Monchi, parliamo della tua storia come direttore sportivo. Quando ti sei ritirato dal calcio giocato sei entrato subito in società, prendendo in mano una situazione complicata in Segunda Division…
«Era un momento difficile per il Siviglia. È un po’ anche il motivo per cui mi lasciarono assumere la direzione sportiva: era una situazione complicata e nessuno si azzardava a prendersi la responsabilità di uscire fuori dal tunnel. Lo feci io, forse con un po’ di sana irresponsabilità. La società aveva problemi sportivi e soprattutto economici, era molto vicina al fallimento. Ciò che ereditai non era certo il meglio, ma ebbi la possibilità di costruire un futuro. Ebbi la fortuna di circondarmi di gente che, come me, amava il Siviglia più di ogni cosa. Un presidente tifosissimo, idem l’allenatore, così come quello delle giovanili. Il mio staff allo stesso modo amava questo club. Così con poche forze iniziammo a ricostruire il Siviglia. Il grande Siviglia dei titoli venuto dopo non sarebbe esistito senza quel primo Siviglia di Joaquin Caparros e Manolo Jimenez. Nella sofferenza costruimmo una base su cui poi si poté costruire l’edificio del grande Siviglia».
Si ricorda molto l’acquisto e la successiva evoluzione di Dani Alves…
«Al tempo ancora non viaggiavamo. Il primo grande torneo internazionale che andammo a vedere fu il Sudamericano Under 20 a Punta del Este nel 2003. Si parlava di questo ragazzo interessante, lo vedemmo e decidemmo di prenderlo. Poi Joacquin Caparros lo fece crescere bene e anche Dani ci mise del suo nel diventare ciò che è diventato».
Il modo in cui si lavora in un club di livello medio-alto come il Siviglia è diverso rispetto a quello di un club come Barcellona o Real Madrid, dove magari c’è meno pazienza di aspettare la crescita di giocatori conosciuti o semisconosciuti?
«Tra le squadre più forti d’Europa e quelle medio-grandi la differenza è il tempo. In squadre come il Siviglia si può scommettere con più tranquillità, le altre hanno bisogno di risultati subito. Club come Real e Barcellona comprano già il prodotto finito, il giocatore già formato».
Tu preferisci lavorare in squadre come il Siviglia o la Roma, che hanno uno staff di valore e lottano per le prime posizioni ma non sono tra i migliori cinque club d’Europa?
«Io non ho uno standard di squadra dove mi piace lavorare. Ora sto alla Roma perché mi lasciano lavorare come lavoravo al Siviglia. Io ho un metodo, se non lavoro così non valgo nulla. Ma se la Roma mi ha chiamato è perché conosce la mia forma di lavorare, non devo cambiare, qui posso essere Monchi».
Un altro acquisto simile a quello di Dani Alves fu quello di Julio Baptista, no?
«La sua è una storia speciale. Al San Paolo giocava a centrocampo, Caparros lo avanzò un po’ e scoprì in lui un profilo più offensivo che ha reso molto. Alla fine ebbe un rendimento superiore alle nostre aspettative. Il soprannome “La Bestia” è dovuto a me: lo chiamavano “La Roca”, io alla presentazione per sbaglio lo chiamai “La Bestia” e alla fine gli rimase questo nome».
Questa estate c’è il Mondiale: è una competizione che influisce sulla tua agenda di lavoro?
«Difficilmente un club che lavora bene, in maniera strutturata, considera il Mondiale una vetrina per poter fare acquisti. Questo succedeva in passato quando non c’erano i mezzi di oggi e il Mondiale era un modo per scoprire giocatori. Inoltre credo che la pressione e la motivazione di una Coppa del Mondo elevino o abbassino le prestazioni di certi giocatori, quindi a volte quella che vediamo non è una performance veritiera. Per me, non è la miglior vetrina per trovare giocatori».
Come direttore sportivo devi tenerti aggiornato su questioni politiche e sociali legate ai contesti da cui provengono i giocatori?
«Tutto ciò che si può conoscere di un giocatore, del suo ambiente e della sua situazione, è buono da sapere. Io dico sempre che quando un giocatore è buono, se il suo rendimento scende non bisogna insistere sul giocatore, ma sulla persona. Probabilmente non riesce a esprimersi bene, perché sa giocare a calcio, ma magari come persona non trova l’habitat migliore per sviluppare il proprio gioco».
Come si sceglie un allenatore?
«Innanzitutto c’è il lato sportivo: tattico, tecnico… Ma c’è anche un aspetto legato alla filosofia del club. Può succedere che ci sia un allenatore che sia un mostro di tattica ma la cui filosofia non coincide con quella del club. Io cerco sempre di considerare sia l’aspetto sportivo sia quello umano, economico, sociale di un potenziale allenatore. La figura che vado a scegliere deve incastrarsi perfettamente nel vuoto che va riempito».
E invece come si decide l’esonero di un allenatore?
«Fondamentalmente accade quando si percepisce che l’allenatore ormai non ha più possibilità. Bisogna cercare di entrare nella sua mente e capire se è possibile o no che recuperi la situazione. È più questo che altro».
Che futuro ha la tecnologia applicata all’acquisto di giocatori?
«Io sono un po’ un malato dell’intelligenza artificiale. Bisogna adattarsi ai tempi, anche il calcio deve farlo. Ma come dice un libro che mi ha regalato il mio amico Victor Orta, bisogna saper distinguere tra suono e rumore. L’utilizzo eccessivo dei dati può essere negativo quanto la scarsezza di dati. Bisogna sempre riuscire a capire qual è il dato che aiuta a prendere una decisione».
Questo mondo in America si è sviluppato di più. Tu credi sia applicabile al calcio tanto quanto viene applicato agli altri sport?
«Se giochi contro una squadra che crea il 73% delle occasioni da gol dalla sinistra, bisognerà prendere provvedimenti. Se il 33% dei calci da fermo di una squadra va a finire in una determinata zona del campo, andrà preso in considerazione. Bisogna saper differenziare dati interessanti e dati non interessanti. Lo stesso nel lavoro di scouting. I dati aiutano a fare una prima selezione, che permettono di scegliere il giocatore con più tranquillità. Se devo vedere 500 giocatori, non posso farlo uno per uno: i dati mi aiutano a fare una cernita di 40. A questo servono i dati».
Come funziona la tua squadra di lavoro?
«Nel mio team ci sono molte persone, principalmente impiegate nello scouting. Dividiamo l’anno in due parti: in una vediamo le partite di calcio in generale, nell’altra siamo più concreti e osserviamo i giocatori che abbiamo selezionato. È complicato spiegare il mio metodo in un’intervista. Cerchiamo costantemente di creare dei filtri secondo dei parametri che ci siamo preposti».
La Roma che obiettivi ha a corto, medio e lungo termine?
«La Roma è un club che storicamente ha esigenze molto alte. Un club in cui si percepisce la pressione e la necessità di ottenere grandi risultati. Il mio obiettivo è innanzitutto quello di consolidare un progetto che già si è avvicinato alla vittoria di questi titoli. Devo mantenere questo progetto in alto e dargli una consistenza e uno stile. Ovviamente un mio obiettivo è quello di esaudire il sogno di qualsiasi romanista, che è vincere un titolo. Nella Roma questo non si può eludere: è un obiettivo».
Hai recentemente vissuto il tuo primo derby, come percepisci la rivalità?
«Il derby vinto non è stato proprio il mio primo perché quando arrivai l’anno scorso ne giocammo uno, purtroppo perso. Ovviamente questo l’ho vissuto con più intensità. Posso dire che sto cominciando davvero a viverlo come un derby, anche se ancora un po’ mi risulta difficile, perché il mio rapporto con la città non è così intenso come lo è a Siviglia. Chiaramente qui esco di meno, ho meno amici, ho conosciuto meno gente. Però devo ammettere che la settimana del derby ho iniziato a rendermi conto di cosa sia. Andavo al supermercato e mi dicevano “Direttore questa partita dobbiamo vincerla“, così anche al ristorante e per strada… Però ancora un po’ fatico. Nel campo l’ho percepito moltissimo, vedendo come i giocatori celebravano la vittoria e come lo facevano i tifosi. Credo sia simile a quello di Siviglia, perché sono due tifoserie calde. Questo l’abbiamo vinto e quindi bene così, è stata un’esperienza perfetta».