Monchi: "In una grande squadra hai sempre poco tempo. Il budget può sempre cambiare..."
Il direttore sportivo della Roma Monchi è stato protagonista di una lunga intervista a Sky Sport. Di seguito le sue dichiarazioni:
Ti senti un po’ Babbo Natale per i tifosi quando arriva il mercato?
«Sì, quando arriva il mercato, d’estate o d’inverno, il mondo gira intorno ai direttori sportivi. Tutti aspettano che prenda tre o quattro giocatori e che diventeranno calciatori importanti. Invece per me normalmente il mercato di gennaio non cambia tanto una squadra, è per cambiare delle piccole cose. Se bisogna fare 4 o 5 acquisti, vuol dire che qualcosa si è sbagliato nel mercato d’estate. Mai prendo un giocatore che non vuole l’allenatore e mai prendo un giocatore che vuole l’allenatore e non voglio io. È il mio modo di lavorare, nessuno dei due deve imporre il proprio punto di vista, tutto deve essere condiviso. Sono 16 le persone che lavorano nel mio ufficio, lavorano e viaggiano tanto, non solo Monchi».
Quante volte vedete un giocatore prima di decidere?
«Tante volte. Noi facciamo una prima parte dell’anno in cui raccogliamo una visione generale, poi cominciamo a segnalare il giocatore, ma lo vediamo tante volte, tra le 6 e le 12 volte».
Non ti è mai capitato di prendere un giocatore che non avevi mai visto?
«No, ma io sono un difensore della tv, perché credo che la prima impressione debba essere così, altrimenti dovresti avere 500 scout. Poi, una volta che capisci che un giocatore potrebbe avere certe caratteristiche, devi sempre andare a vederlo dal vivo».
Che differenza c’è tra fare mercato in Spagna e in Italia?
«Qui si lavora in una vetrina, esce tutto (le notizie, ndr), è difficile, per me è stato il cambiamento più grande. In Spagna il mercato è importante, ma non diventa una notizia continua. Qui è una notizia non solo ad agosto o a luglio, ma a settembre, ottobre, novembre… quindi è più difficile. Malcolm? Se una squadra come il Barcellona spende 42 milioni per un giocatore non lo fa solo per strapparlo alla Roma».
I tifosi.
«I tifosi della Roma hanno tutti ragione, ma il tifoso ha sempre ragione, solo che quelli della Roma di più, perché è vero che quando uno tifa una squadra come la Roma – che è una squadra grande, non solo in Italia, ma anche in Europa – bisogna vincere qualcosa. È normale, gli ultimi ai quali si può dare una colpa sono i tifosi della Roma perché hanno ragione. Io non posso dire niente, al di là dei media, ho sempre avuto la sensazione che loro siano vicini a me, ma è vero che qualcosa dobbiamo anche dargli. Sono tanti anni che non vincono niente, quindi è normale. Non sono venuto qui per vendere, ma per fare il mio lavoro e il mio lavoro era sistemare i numeri. Piano, piano l’anno scorso abbiamo sistemato più o meno i numeri e abbiamo fatto delle vendite normali, quelle che io ho pensato essere buone per la Società. Non ho la bacchetta magica, quello che ho fatto, l’ho fatto sempre nella stesa forma, lavorando con i giovani, ma anche con i giocatori che già sono fatti. Credo che alla fine i tifosi, voi (la stampa, ndr), potrete cominciare a capire quale sia la mia idea. So che il tempo nel calcio a volte non arriva mai. Ma sono convinto, perché so come lavoro io e come lavorano quelli che ho intorno, che abbiamo ragione».
Sei autocritico?
«Tanto. Io sono il più esigente di tutti con me stesso. Io dico sempre che il direttore sportivo deve avere 3, 4 caratteristiche. Una di queste è capire quando sbaglia e imparare da quello che ha sbagliato. È vero che ho avuto la possibilità di vincere tante cose, ma il giorno dopo sono preoccupato perché non mi fermo mai al successo. Lavoro sempre pensando che domani il successo non arriverà. Quindi ogni giorno provo a dire “Dove ha sbagliato Monchi?”. Io non mi nascondo mai, metto sempre la faccia, perché credo sia giusto così. Ho la fortuna, qui a Roma e a Siviglia, di lavorare con autonomia. Quindi, se sbaglio, sbaglio io. Pallotta mi ha detto: “Questa è la tua squadra, questa è la tua Roma, tu devi fare questo”».
Hai fatto più cose giuste o sbagliate, da quando sei qui?
«È troppo presto per saperlo. Ti faccio l’esempio di Dani Alves. Dopo un mese che è arrivato a Siviglia dicevano “Ma da dove è arrivato questo giocatore?”, e poi è arrivato dove è arrivato. Per me il primo anno abbiamo raggiunto un risultato ottimo, per come avevamo iniziato. Quest’anno è ancora presto per sapere come finiremo, perché siamo ancora vivi in tutte le competizioni. Penso che i bilanci si facciano alla fine della stagione, ma qualcosa ho sbagliato».
Zaniolo?
«Mentre facevamo la trattativa avevamo due richieste, Radu e Zaniolo. Radu però era già stato girato al Genoa. L’Inter non voleva vendere Zaniolo, mica sono scemi, ma volendo al contempo prendere anche Radja era normale che bisognava cedere su qualcosa. L’affare in mancanza di Zaniolo non sarebbe comunque saltato, non era un aut-aut. Non pensavo che Zaniolo sarebbe stato subito così determinante».
Perché fai il direttore sportivo?
«Non lo so, mai avrei pensato di fare il direttore sportivo. Mi sono laureato per fare l’avvocato, che è quello che mi sarebbe piaciuto fare. Quando ho smesso di giuocare, ho fatto un anno il team manager. È stato un anno orribile del Siviglia, che è andato in Serie B. in quel momento penso che nessuno avrebbe voluto fare il direttore sportivo. In quel momento il presidente me lo ha chiesto e io ho risposto “lo faccio”, senza pensare dove sarebbero arrivati, perché era un casino incredibile, la squadra era in Serie B, più vicina al fallimento che ad altre cose».
Su Totti?
«Piano piano sta imparando. Non so quale sarà la sua figura in futuro di preciso se direttore sportivo o altro. Se mi segue nelle trattative? A lui piace, più passa il tempo e più si interessa. Quello che dice ha sempre un senso».
Perché ti chiamano Monchi?
«In Spagna, tutti quelli che si chiamano Ramon, vengono soprannominati Monchi o nomignoli simili. A me piace, mia mamma mi chiama così quindi fatelo anche voi».
Ecco altre dichiarazioni del DS, rese note nella versione integrale dell'intervista.
Sul tempo.
«In una squadra più grande hai meno tempo, è così. Se sei il DS del Barcellona il tempo non esiste, se sei il DS della Roma il tempo è piccolino. Per dire, avessimo bisogno di un portiere, provo a prenderlo pensando che può diventare un portiere forte della Roma in due anni, ho tempo perché abbiamo Olsen, Mirante e Fuzato. Caso diverso in cui ti servisse un terzino destro, ti servirebbe uno che arriva e gioca».
Sulle scelte.
«Per me l’allenatore deve decidere il profilo, poi la direzione sportiva deve mettere a disposizione dei nomi. È difficile che un allenatore conosca i nomi, salvo che siano giocatori che giocano nel calcio italiano. È normale, perché fanno un mestiere diverso. Se l’allenatore vuole un terzino destro di determinate caratteristiche, io dico i profili che posso proporre. Normalmente ho avuto la fortuna di avere la fiducia degli allenatori con cui ho lavorato. Difficilmente impongo qualcosa. Non mi piace condividere tutto, a volte gli allenatori si fidano di me, ma provo sempre a trovare una squadra condivisa».
Sull'uso dei dati.
«Se cerchi un difensore centrale bravo di testa, i dati ti aiutano. Per fare la prima scrematura il dato è fondamentale, poi devi guardare il giocatore. Qui ho trovato più facilità, si lavora tanto in forma analitica. Ma gli estremi non sono buoni, è meglio mischiare».
Sul budget.
«Ho sempre detto che lavoro con l’excel, non dimentico mai i numeri. Oggi il budget è uno, domani può cambiare. A gennaio può cambiare, perché magari arriva un’offerta di 200 milioni di euro per Lorenzo Serafini (ufficio stampa, ndr) e se lo portano via. Il budget non è fisso, bisogna sapere che c’è sempre qualche rischio. Lavoro molto vicino al direttore finanziario e al direttore marketing. Quanto può spendere la Roma nel mercato? Non è quanto può spendere, puoi comprare un giocatore da 20 milioni, ma conta anche lo stipendio. È tutto insieme».
Su Malcom.
«Immagino che il Barcellona lo volesse prima. Non voglio pensare che una squadra che spende 42 milioni di euro lo faccia perché lo vuole la Roma, non sarebbe molto professionale e al Barcellona sono grandi professionisti».
Sulle cessioni.
“Prima di arrivare qui, l’acquisto più costoso che ho fatto è stato Vazquez, a 15 milioni. Se guardi i giocatori che ho ceduto, il più costoso è stato Dani Alves per 42, qui ho venduto Salah per 50, Radja per 40, Alisson, Rüdiger per 40… i costi dei giocatori si sono alzati, per me è un po’ una follia».
Spegni il telefonino a Natale?
“Mai. È il mio lavoro. Racconto una storia: era Natale 2002-2003, ero andato a vedere Reinaldo Navia, un giocatore cileno che giocava in Messico. Mi ricordo che era Capodanno, in Spagna si mangia un chicco d’uva a mezzanotte per ogni rintocco. 5 minuti prima ero al telefono con i dirigenti della squadra messicana. Poi non l’ho preso perché non avevamo una lira (ride, ndr). Quelli che mi conoscono sanno che è difficile avere una conversazione senza il telefono a fianco. Non dico che sono il DS più bravo, sicuramente no, ma uno di quelli che lavorano di più sicuramente. Da mio padre ho imparato che per diventare qualcuno, l’unica strada è il lavoro».