Cordova: "Vi racconto come andò il mio passaggio dalla Roma alla Lazio"
Franco Ciccio Cordova, doppio ex di Roma e Lazio, ha rilasciato un'intervista ai microfoni di Roma TV.
Chi è Franco Ciccio Cordova?
“Non lo so più neanche io, mi hanno confuso. Sicuramente non ero un bandito, non ero un matto come dicono. Ero uno normale, tranquillo. Mi piaceva divertirmi da giovane. E poi ero bizzarro, ma non sono stato mai un eccesso di qualcosa, sono stato nella norma”.
Romano d’adozione.
“Sono stato più a Roma che a Napoli, sono stato portato lì da una famiglia napoletana. Da Napoli sono andato via a 16 anni”.
Come fu il primo impatto con Roma città e squadra?
“Ero ancora troppo giovane per capire ed ero già stato all’Inter, alla grande Inter. Ero giovanissimo, ho fatto errori di gioventù. Ho vissuto normalmente questo impatto, ho trovato parecchi giovani come me come Capello e Ossola. L’impatto è stato abbastanza tranquillo, poi ero abituato a Milano per cui l’Olimpico non mi impressionò molto. Ero abituato a dimensioni più grosse, come città”.
Per un napoletano è più facile entrare a contatto con i romani.
“Ho avuto un percorso particolare, i primi due anni di A li ho fatti a Catania, simile a Napoli. Sono stato venduto all’Inter e mi sono trovato a Milano, dove ancora c’era la nebbia, ero disperato. Quando telefonavo a casa dei miei, mi dicevano di smettere. Ma la passione era molto più forte. Ritornare al centro è stato come tornare a casa, Roma per certi versi è bella da morire, come Napoli, e la gente è simile. Mi sono trovato subito.
Sei stato definito un anticonformista.
“Non mi piacciono molto certe cose. Se devo dire qualcosa e penso di dirla giusta, la dico. Se chi sta dall’altra parte se la prende, non lo so”.
Questo ha pesato nella tua vita?
“Molto. Intorno al mio nome si sono create tremila fantasie, io mi sono estraniato da un certo mondo, non ho mai chiesto niente a nessuno. So stare in disparte, se poi vengo stimolato e mi viene chiesto qualcosa, dico quello che penso”.
Il periodo della tua permanenza a Roma era particolare, rivoluzionario.
“Penso che tutti noi giovani abbiamo fatto un percorso rivoluzionario e non, pur vivendo in un mondo più ovattato. Ho fatto quello che dovevo fare, non mi troverai mai implicato in nessun caso di alcolismo o droga. Tutte le cose peggiori che possono succedere, io non le ho mai fatte. Andavo in giro, come tanti altri, non ero solo io. Niente di più, niente di meno”.
L’arrivo di Liedholm riportò la Roma a un certo livello.
“Allora il presidente era Anzalone e io ero fuori squadra. Il matrimonio con la figlia dell’ex presidente? Sul mio nome è stato detto tutto, pagavo un prezzo che non dovevo pagare. Giocavo nell’Under 23 ma non nella Roma. Liedholm era in contrasto violento col presidente e arrivammo al derby da penultimi in classifica. Si riunì il gruppo, mi convinsero a giocare, Anzalone lo fece con Bendoni, il capo dello sport del Messaggero. Con me in campo se la Roma avesse perso, la scusa sarebbe stata la mia presenza. Quindi andai in campo, nonostanti fossi stato avvertito che me l’avrebbero fatta pagare, ma volevo giocare. Vincemmo 1-0 e da lì facemmo 7 vittorie di fila, otto se De Sisti non si fosse fatto due autogol. Dopo quel derby giocammo fortissimo, arrivammo terzi ma vicini a vincere il campionato. Perdemmo una partita impossibile contro il Torino, con 4 pali e prendendo gol in contropiede. Giocavamo benissimo, la Roma faceva 1-0, non ci facevano gol, grazie alla ragnatela di Liedholm che Guardiola ha ritirato fuori”.
Liedholm cosa aveva in più?
“Era troppo intelligente, intanto sapeva quello che volevi fare, ti poteva correggere. Poi era intelligentissimo, era uno psicologicamente forte, ti prendeva in giro nel modo giusto, era duro nel modo giusto, era svedese. Ci portava al cinema, era un profondo conoscitore di calcio e in qualche modo ti migliorava in tutti i sensi. Con Liedholm ho abitato a Londra, perché la famiglia di Simona era in pericolo di rapimenti, dopo la partita andavo e tornavo dopo 2-3 giorni. Ti dava libertà ma dovevi stare in campo in un certo modo. La forza era la testa che ti trasmetteva quello che voleva lui”.
Nel 1976 cambia la tua carriera.
“Come aveva previsto Marchini, Anzalone me la fece pagare. Mi chiese se avevo letto il giornale, chiesi cosa è successo: ero stato ceduto al Verona. Mi vestii e andai in ufficio, chiedendogli di questa cosa. Lui mi disse che dovevo andare, che mi aveva venduto. Nel frattempo il presidente mi chiamò, ma potevo portare Simona e famiglia a Verona? Nacque una discussione e fui costretto ad andare. L’approdo alla Lazio fu una ripicca, la cosa che fa più male è che ho perso 3 anni di Roma, potevo avere 300 partite. Fui costretto per non dargliela vinta, ad andare alla Lazio. Alla Lazio mi venivano a trovare tutte le volte che si giocava all’Olimpico Aldo Pasquali e l’ingegner Viola. Parlavamo della Roma, tant’è che Viola mi aveva promesso di riportarmi alla Roma una volta diventato presidente. Gli dissi che quando saremmo stati d’accordo avrei salutato tutti all’Olimpico. Era tutto già fatto, ma l’avvocato Colalucci bloccò tutto. Distribuiva il giornalino dell’Olimpico e attaccò Viola violentemente. Al che, l’ingegnere mi chiese di fare un anno a un’altra squadra per poi farmi tornare. Il giornale era sovvenzionato da Marchini. Non tornai per questo motivo”.
È vero che Agostino avrebbe voluto moltissimo il tuo ritorno?
“Lui era molto più giovane, era anche ben voluto, un ragazzo tranquillo. Lui doveva venirmi a prendere, ma fu un massacro”.
Nel periodo alla Lazio, come hai vissuto la transizione?
“Molti tifosi della Roma in incognito venivano a vedere la Lazio. Non lo dicevano ma venivano, li trovavi fuori dallo stadio. La cosa che mi piace di più di questa vicenda, è che ovunque vado in giro per Roma mi amano tutti alla follia. Alla prima partita alla Lazio non volevo mettermi la maglia, fui l’ultimo a uscire e mi misero la maglia addosso. L’ho vissuta anche a livello dirigenziale. Ma sono romanista e mio figlio è romanista pazzo. Pago un prezzo che non dovevo pagare, non come ha scritto un giornale della capitale, non ho finito la carriera per il calcioscommesse. Finii la carriera per un tendine rotto, il calcioscommesse mi ha toccato di striscio. Sono stato squalificato 8 mesi per omessa denuncia, potevo sapere e non ho fatto la spia, non ho preso soldi per condizionare partite. Al processo ho chiesto se avrei dovuto fare la spia, ma lo sapevano tutti. Non ero coinvolto. Tengo a ribadirlo, sul mio conto si fa presto a parlare. Non sono stato mai in mezzo al niente, se uno torna indietro con la mente non mi trova da nessuna parte”.
Come sono stati i primi derby con la maglia della Lazio?
“Il primo si giocava in casa della Roma, con l’inno della Roma. Mentre andavamo a centrocampo, Picchio mi s’avvicina e mi dice che lì c’era anche la mia voce. A un certo punto della partita, c’era Pellegrini che mi si avvicinò e mi disse di passare la palla a loro (la Lazio)”.
Gli altri derby furono diversi?
“In uno ho fatto autorete. Punizione di Di Bartolomei, la misi in porta, imparabile (ride, ndr)”.
Rifaresti mai quella scelta?
“Fu un momento di ira, di reazione. Non potendo andare da nessun’altra parte, l’unica società era la Lazio. Io ho questa grande colpa, ma Di Bartolomei è andato a giocare al Milan, Picchio ha giocato tre anni alla Roma. Solo intorno alla Roma si è creato questo macello”.
Ci fu una gogna mediatica…
“Ho avuto parte di Roma invidiosa perché avevo sposato la Marchini, si pensava fosse un matrimonio di interesse. Ero innamorato perso di Simona. Resta una donna ricchissima, se fosse stato un matrimonio di interesse sarei rimasto a fare il sig. Marchini”.
Come vivi il derby oggi?
“Vedo sempre Roma TV, e quando la Roma perde evito ogni replica. Se invece vince, rivedo la partita 4-5 volte. Sono un romanista, vorrei dire l’ultima cosa: non devo chiedere niente a nessuno. Non sono mai venuto a Trigoria, non ho mai chiesto un biglietto. Non mi sono fatto mai vedere, non mi serve la Roma. La amo, ma non devo fare niente”.
Adesso chi è Franco Cordova?
“Ho due figli pazzeschi, piccoli, sono la mia vita. Lavoro, sono normale, tranquillo. La cosa che mi fa piacere è che ovunque vado sono Ciccio, ma sono un uomo normale. Se poi mi poni delle domande ti dico quello che penso, ma sono fatto così”.
Nella Roma di Spalletti dove giocheresti?
“Dappertutto”.
Qualcuno della squadra attuale ti somiglia?
“Io non so se fossi bravo. Ma se fossi stato più fortunato, avrei vinto tre campionati. Senza nulla togliere ai compagni, ma se avessi giocato con Falcao, Pruzzo, Conti, Prohaska, Nela, Vierchowod, avrei vinto qualche campionato. La Roma in quel periodo era fortissima, c’era Cerezo. Il mio rammarico è quello, vincere, chiudere alla Roma ed essere più felice. Ma sono felice, saluto i miei figli”.
Uno si chiama come il Capitano…
“Francesco Maria. Senza nulla togliere al Capitano. Nella squadra di Spalletti avrei giocato”.