Pro Patria, Greco: "Luis Enrique era avanti anni luce, a Roma è stato trattato come un incapace"
Leandro Greco, ex centrocampista della Roma e attuale allenatore della Pro Patria, ha rilasciato una lunga intervista a fanpage.it. Ecco uno stralcio delle sue parole:
Non era un grande dribblatore in carriera, ma ci ha provato: tornare sulla panchina della Roma cos’è, un semplice obiettivo o solo un sogno?
“Ho appena cominciato a fare l’allenatore, mi sembra prematuro fare questo tipo di discorsi. Non è per sviare la domanda, tutti conoscono il mio attaccamento alla Roma, ma direi che per il momento sono messi molto bene”.
Ecco, appunto: lei è stato giocatore di Gasperini nella stagione 2014/2015 al Genoa: che effetto le fa vederlo sulla panchina giallorossa e si aspettava, da lui, una carriera così importante?
“Sì, me lo aspettavo perché si vedeva subito che aveva concetti di gioco all’avanguardia e una grandissima determinazione. Perché il Gasperini che vedo oggi sulla panchina della Roma è esattamente lo stesso che ho vissuto io, solo che adesso ha raggiunto quella autorevolezza per cui, quando dice o fa qualcosa di tosto, non viene più guardato come un marziano, come magari succedeva qualche anno fa”.
Tornando all’attualità: ha fiducia nella sua Roma quest’anno?
“Grandissima fiducia, perché in quell’ambiente serviva proprio uno come Gasperini, che non si fa condizionare da un clima molto caldo e spesso umorale e che non ha paura di entrare a gamba tesa, se serve. Lui va sempre dritto per la sua strada, non lo scalfisce nulla. Mi aspetto che il mister ribalti tutto e sono convinto che farà benissimo”.
Gasp è l’allenatore che più di ogni altri ti ha fatto venir la voglia di allenare?
“Ne ho avuti tanti bravi, da Spalletti a Ranieri, passando per Gasperini, ma il tecnico che mi ha veramente cambiato da calciatore, e ha cominciato a farmi ragionare da allenatore, è Luis Enrique. È semplicemente un visionario, talmente avanti nei concetti, nel suo modo di gestire il gruppo e svolgere il suo ruolo, che a Roma purtroppo non è stato capito. Anzi, a volte è stato trattato proprio da incapace, quando invece era semplicemente avanti anni luce. Credo che sia stata un’opportunità persa per tutti. Quanto ha fatto nel prosieguo della sua carriera, lo dimostra, ma già a quei tempi aveva metodologie uniche e, probabilmente, se l’avessimo trattato diversamente, avremmo assistito a qualcosa di storico”.
Tornando alla tua “carriera” da tifoso: qual è il ricordo più bello?
“Sicuramente la vittoria dello scudetto, anche se quel giorno non ero sugli spalti”.
Ma, come, uno della Curva Sud che si perde la partita della storia della Roma?
“Ho detto che non ero sugli spalti, non che non ci fossi… (ride, ndr). Ero in campo a fare il raccattapalle, proprio sotto la Sud, e ricordo l’emozione al momento dell’invasione di campo. Eravamo tutti convinti che fosse finita e stavamo già festeggiando, poi ci hanno richiamato per gli ultimi minuti ed è stato strano contenere l’emozione ancora per un po’. È stato comunque un momento indimenticabile”.
Quali altri momenti di questo tipo hai vissuto, invece, da calciatore?
“Tanti, a partire dall’esordio in Champions League a Basilea, dove per altro ho anche segnato. Quell’anno (stagione 2010/2011, ndr) ero destinato ad andare ancora in prestito, ma ho fatto un ottimo precampionato, alcune opportunità di mercato non si sono concretizzate e sono rimasto a Roma. Per un paio di mesi non ho visto il campo, poi a Basilea dovevo andare in tribuna e, all’ultimo momento, mi chiamano per andare in panchina perché non c’erano più centrocampisti. Alla fine, entro e segno, da lì è cambiato tutto”.
Pochi giorni dopo (7 novembre 2010), hai giocato quasi tutto il derby, per altro vincendolo in “trasferta” (0-2)…
“Un’emozione forte, devo dire, perché fino a qualche giorno prima non stavo attraversando un momento particolarmente positivo e in pochissimo tempo mi è cambiata la vita. Esordio in Champions League e derby vinto, giocando più di un tempo. Al 39’ Menez si è infortunato e, vista la buona prestazione di Basilea, Ranieri mi ha dato fiducia. Io viaggiavo veramente a un metro da terra, mi riusciva tutto e infatti anche in quella partita ho fatto un’ottima figura. E, poi, abbiamo anche vinto, quindi non potevo chiedere di meglio”.
Come si fa a spiegare a chi non è di Roma, cos’è il derby?
“Semplice, non si può. A volte non si riesce a spiegare nemmeno a quelli di Roma, figurati agli altri (ride, ndr). È uno stress, soprattutto per i calciatori romani, perché si è troppo coinvolti. Hai perennemente genitori, parenti, amici, tifosi che ti ricordano che si deve vincere, come se ce ne fosse bisogno. Dunque, quando finisce, è quasi una liberazione. A volte, vincerlo è prima di tutto un sollievo e solo dopo ti godi il momento (sorride, ndr)”.
A proposito di divinità: che effetto ti ha fatto, da tifoso giallorosso, giocare con l’idolo di tutti i romanisti?
“Ovviamente è stato strano ritrovarmi con Totti nello stesso spogliatoio, ma dopo i primi momenti di inevitabile soggezione, poi Francesco si è rivelato per quello che è, una persona semplice, che ti mette a tuo agio. Nonostante sia praticamente un idolo a Roma, non è certamente uno che vive sul piedistallo. Anzi, è un ragazzo molto alla mano, simpaticissimo, davvero un uomo-spogliatoio, un leader vero”.
Da allenatore, qual è il giocatore che, invece, vorresti sempre avere nella tua squadra?
“Daniele De Rossi, perché è un altro leader nato. Lui alzava davvero il livello. Con l’esempio quotidiano, la sua generosità, trascinava tutti e ci spingeva sempre al limite. E spesso anche oltre”.
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