Se la Roma non ha il motore è perché non lo ha voluto
Dal vocabolario di José Mourinho, che da quando è a Roma nelle interviste ha creato una sorta di stile formulare con espressioni che sono diventate anche parte del linguaggio dei tifosi, domenica scorsa è uscita una nuova parola che il portoghese ha utilizzato per spiegare la differenza che c’è stata tra la sua squadra e il Bologna: “motore”, vale a dire quel dinamismo che ha fatto sì che centrocampisti come Moro, Freuler e Ferguson dominassero la plurititolata mediana giallorossa (a Bologna la Roma ha iniziato con un Campione d’Europa, un Campione del Mondo e il suo capitano nei tre di centrocampo).
Un motore che i suoi giocatori evidentemente oggi non hanno, perché la rosa della Roma è formata principalmente da calciatori in là con l’età, con in alcuni (troppi) casi un passato (e un presente) ricco di infortuni e dunque non sempre in grado (per non dire non quasi mai in grado) di fornire un’intensità necessaria a quelle che sono le richieste del tecnico, che dal giorno 1 ha abbandonato ogni proposito di gioco associativo per proporre una squadra che prevalesse sull’avversario proprio grazie all’intensità e alla cattiveria agonistica. Bologna-Roma non è stata certo la prima partita in cui i giallorossi si sono fatti sopraffare fisicamente in questi due anni e mezzo sotto la gestione di Mourinho, tant’è che è arrivato lui stesso a dire che cambiare filosofia nel reclutamento dei calciatori potrebbe essere un’opzione.
Questa dichiarazione di apertura al lavoro con “giovani che hanno potenzialità per svilupparsi” è stata principalmente letta in chiave futura, nell’ambito di una trattativa per il rinnovo per il quale Mourinho sta lavorando da settimane, con continui occhiolini a un ambiente da usare come supporto nelle discussioni con la proprietà. Ma non è mai stato invece considerato quanto questo (presunto) cambio di mentalità sia totalmente fuori luogo in chiave passata e presente. Perché in una situazione in cui, banalmente, il numero di scelte sul mercato era limitato dai paletti del settlement agreement (al quale si è arrivati anche per decisioni dell'attuale gestione, non solo per negligenza della precedente), rinunciare allo scouting e prendere calciatori stagionati, dei “prodotti finiti”, pescando sempre dal vocabolario di Mourinho, è stato soprattutto un input dell’allenatore, che di “calcio sostenibile” e di “tempo” ha parlato solo nella conferenza stampa di presentazione e che già dalle interviste successive ha chiesto “regali” e di “accelerare il processo”, smentendo immediatamente i suoi (non) proponimenti.
È stata una scelta che, al momento, è stata rinnegata pubblicamente da chi l’ha presa o, come minimo, da chi ha contribuito fortemente a che fosse presa, e se si parla giustamente di Tiago Pinto che, per sua stessa ammissione, è il primo responsabile dell’arrivo, fin qui fallimentare, di Renato Sanches, allora bisogna prendere tutto il pacchetto e includere anche l’allenatore che di questa Roma, nei fatti, è quasi un plenipotenziario, col benestare dei sessantamila che in ogni partita riempiono l’Olimpico come mai era accaduto nella storia recente e di tanti (non tutti) di quelli che dallo stadio rimangono fuori. Che adesso sarebbero anche potenzialmente favorevoli a una nuova rivoluzione pur di affidarla ancora a Mourinho, senza magari considerare che - legittimamente - il portoghese potrebbe non essere (come potrebbe essere) l’uomo più adatto a condurla, e per ulteriori informazioni ci si può rivolgere a Kevin De Bruyne e Mohamed Salah.
Ci si avvia dunque a questo finale di 2023 con tanta confusione, con una proprietà che - sempre legittimamente - non parla e di cui si attende di vedere le azioni (mai mancate) per capire come sarà la Roma del 2024. Se avrà un motore nuovo o se dovrà andare avanti ancora con quello vecchio.